Il
“mistero di Archimede” non è uno dei tanti artifici dell’archeologia del
mistero che vanno tanto di moda oggi, è qualcosa di molto più serio e
intricato. Non è nemmeno un fraintendimento moderno dell’antichità, un qualcosa che non siamo riuscit a capire, lo
troviamo, infatti, già descritto in Plutarco:
“In
tutta la geometria antica non è dato incontrare argomenti più difficili
e profondi di quelli affrontati da Archimede, espressi in termini più
semplici e puri. Alcuni studiosi attribuiscono questo portento alle doti
congenite dell’uomo; altri ritengono che il fatto che ogni suo
principio sembri raggiunto senza lacuna fatica o difficoltà, è dovuto
alla straordinaria elaborazione con cui la ricavò. Per quanto uno
cerchi, non potrebbe arrivare mai da solo alle dimostrazioni ch’egli dà;
eppure appena le ha apprese da lui, ha la sensazione che sarebbe
riuscito egli pure a trovarle, tanto è liscia e rapida la strada per cui
conduce a ciò che vuole dimostrare”(Plutarco, Vita Marcelli, 17).
Plutarco
individua molto bene il punto della questione: una dimostrazione chiara, così come
sono ben comprensibili e conosciuti i procedimenti applicati con
estremo rigore scientifico (non solo antico, ma anche moderno), ciò nonostante non si riesce a capire come
siano stati fatte fatte le sue proposizioni e questo fin dai primi teoremi come la Quadratura della parabola
(per inciso la prima somma di una serie infinita che ci sia
pervenuta), per arrivare a quelli più complessi delle ultime opere quali
la curva spirale o alcuni teoremi contenuti nel “Metodo meccanico”.
In
passato, fu stata avanzata da più parti l’ipotesi che Archimede avesse
fatto uso di procedimenti tenuti segreti o quanto meno non contenuti
nelle poche opere superstiti. L’ipotesi è stata in parte confermata dal
ritrovamento del “Metodo meccanico”, che ha colmato alcune lacune, ma non tutte, poiché il “Metodo meccanico”
non sembra avere sempre fornito la scoperta, piuttosto sembra essere
stato usato ad ulteriore riprova di quanto ideato altrimenti, così
in parte il mistero è rimasto inviolato.
Leggendo
Archimede effettivamente ci si rende conto che doveva esserci molto di
più. Per dare l’idea delle perdite subite, basti pensare che
nell’antichità Archimede era noto soprattutto come astronomo e l’unica
opera archimedea che potrebbe essere ricondotta all’astronomia che ci è
pervenuta, è l’Arenario, che più che un opera di astronomia è un divertisement matematico.
E
allora? Come è possibile che uno scienziato vissuto 2200 anni fa, abbia
potuto scrivere dei capolavori scientifici senza che i suoi collegi di
oggi e del recente passato riescano a capire come abbia fatto? Tanto più
che le sue opere costituiscono il fondamento e la base della maggior parte delle
discipline scientifiche di oggi.
Indubbiamente
la questione ha a che fare con il metodo scientifico, il ché dà la
misura dell’importanza e della portata della questione, dato che quello che noi
conosciamo come il metodo galileiano, altro non è che la versione un po’
approssimata e
meno rigorosa del metodo scientifico archimedeo, e che, inoltre,
Leibniz quando non riuscì a difendere il suo metodo di calcolo
infinitesimale e definire gli infinitesimali, affermò che si trattava
solo di un diverso linguaggio matematico, il quale avrebbe in ogni
momento potuto essere espresso col metodo archimedeo (il metodo di
esaustione, la parte chiara dell’elaborazione archimedea)…
furono proprio queste asserzioni che finirono col costituire il
principale alibi per la sopravvivenza degli infinitesimali nell’analisi matematica, di cui Archimede fu il padre fondatore.
Dupoint commenta questo importante passaggio storico, dicendo giustamente“
Si vuole procedere più speditamente. Nasce un’analisi infinitesimale
agile ma su basi fragili. La disinvoltura prende il posto del rigore
(archimedeo). Gli indivisibili… sostituiscono il metodo di esaustione”.
Cambiarono
le esigenze degli scienziati e di conseguenza l’approccio alla scienza
stessa. Una diversa idea della scienza può portare anche a risultati e
procedimenti diversi, questa è la soluzione suggerita dal fisico
Salvatore Notarrigo, che nega l’esistenza di un mistero archimedeo,
ricollocando Archimede all’interno dalla filosofia italica, nata con
Pitagora e sviluppata oltre da Democrito, che a differenza di quella di
matrice aristotelica, era contraria alla divisione della scienza in
diverse discipline, ma la concepiva come unica. Risultato della stessa
deduzione logica, di conseguenza non vedeva niente di male
nell’applicare ad esempio processi meccanici alla risoluzione di
problemi geometrici, come faceva Archimede ed avevano fatto altri prima
(ad es. Archita di Taranto, maestro di Eudosso) e dopo di lui Eratostene di Cirene, per cui, secondo Notarrigo, le parti mancanti dell’esposizione archimedea che producono il cosiddetto “mistero” andrebbero cercate nelle discipline “sorelle” come la fisica e la meccanica.
L’osservazione di Notarrigo mi sembra essere supportata dalla critica rivolta da Eratostene, il destinatario del “Metodo meccanico”,
ad Eudosso ed Archita, i quali pur avendo fatto uso di strumenti
“meccanici” nello studio della quadratura del cubo, non erano stati
capaci di fare il passo successivo adattandoli alla geometria, non solo,
ma li rimprovera di non essere stati in grado d’inventare strumenti
atti a calcolare le due medie proporzionali con le quali si sarebbe
risolto il problema, come aveva fatto lui. in conclusione il mancato uso di
soluzioni e supporti che oggi chiameremo ingegneristici, in ambito
alessandrino veniva visto come grave demerito, ma non un limite della
disciplina scientifica, bensì personale.
Effettivamente,
leggendo i testi dei matematici greci, fatta eccezione forse per
Euclide, non sembra che siano stati influenzati più di tanto dalla
filosofia platonica e aristotelica, che sembra avere condizionato
soprattutto gli studiosi di storia della scienza, ma non gli scienziati
contemporanei ai grandi filosofi. Archimede ad esempio non menziona né
Euclide ( pur applicando i suoi teoremi), né Aristotele, non sappiamo se
non lo conobbe o se non lo ritenne degno di menzione.
A
mio avviso il “mistero di Archimede” è la sua serietà scientifica.
Archimede riuscì ad ottenere risultati così straordinari, perché costruì
i suoi procedimenti su basi il più possibile solide.
La soluzione dei
problemi geometrici in Archimede non consiste in un unico procedimento analitico
“lineare” come in uso oggi, non si tratta cioè una serie di comprovati
passaggi conseguenti l’un l’altro lungo una linea di ragionamento;
nell’ottica archimedea ciò non avrebbe avuto sufficiente rigore, non
garantendo la certezza del risultato finale.
Archimede
si servì invece
di una serie di singoli studi appartenenti a tutte le discipline
scientifiche che gli potevano essere utili, anche se apparentemente
senza relazione tra loro, che avevano la funzione di esplorare ed
approfondire ogni minimo aspetto del problema sotto ogni possibile punto
di vista, analizzando meticolosamente ogni singolo elemento e rapporto
tra le figure geometriche in questione, avvicinandosi al problema da più
punti a
piccoli e ben fondati passi, così da ottenere una rigorosa soluzione,
che in genere nei suoi scritti sembra arrivare inaspettata e al tempo
stesso perfetta; questo perché composta da molti piccoli passaggi
(teoremi), e soluzioni secondarie non sempre espressamente menzionati
nella dimostrazione finale, la quale, in una sintesi geometrica,
trasforma
ciò che in origine era una dimostrazione “globale” in “lineare”: una
singola proposizione, dietro alla quale si nasconde un complesso intrico
di proposizioni, assiomi e definizioni appartenenti a tutti i rami
della scienza.
Il
mistero di Archimede in conclusione non è altro che uno straordinario
metodo scientifico che noi oggi non riusciamo più a riprodurre, forse
per riuscirci bisognerebbe tornare indietro e guardare alla scienza in
modo diverso, dimenticando la frammentazione, il positivismo ed il
relativismo. Gli ultimi due in modo particolare danno l’idea di avere
rinunciato, senza una fondata motivazione, alla ricerca di procedimenti
dimostrativi il più possibile affidabili e precisi, in altre parole a ciò che era stato
l’obiettivo principale della scienza e filosofia classica. Forse dopo
l’iniziate esaltazione della Ragione, ci si è resi conto di quanto questa sia
difficile da gestire, dell’immane sforzo intellettuale che comporta e
che, contrariamente a ciò che si è tentato di fare, non è facilmente
asservibile, e adesso la Ragione è semplicemente scomoda e capire
personaggi come Archimede o Zenone diventa veramente difficile.
Tra la molta letteratura sull’argomento, alcuni testi:
G.Cambiano, Alle origini della meccanica: Archimede ed Archita, Arachnion 2,1, maggio, 1996.
P.Dupoint, Appunti di storia dell’analisi infinitesimale, vol.I, Le origini, Torino, 1981, pp.236-38.
M.Galuzzi, La lettura di Archimede nell’opera di Newton. in: Archimede mito, tradizione, scienza. Firenze 1992, pp.291-317.
E.Giusti. Immagini del continuo
in:L’infinito di Leibniz. Problemi e terminologia. ( Simp.Int.Lessico
Intelettuelale Europeo della Gotfried-Wilhelm-Leibniz Gesellschaft)
(Roma 1989), Roma 1990, p.3-32
O.Neugebauer, The Exact Sciences in Antiquity, Princepton, 1952.
S.Notarrigo, Il Linguaggio Scientifico dei Presocratici analizzato con l’Ideografia di Peano. MondoTRE/ Quaderni, Siracusa, 1989.
S.Notarrigo, Archimede e la Fisica, in: Archimede, mito, tradizione e scienza, a cura di C.Dollo, Firenze 1992.
L.Russo, La rivoluzione dimenticata. Il pensiero scientifico greco e la scienza moderna, (2 ed.) Milano, 2003.